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Enrico Realacci

Haworth castelli Creative center - Roma (RM)

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Great spaces Il primo incontro con lo spazio che ora ospita il creative center è stato davvero chiarificatore: malinconici uffici da tempo dismessi, ambienti ripetitivi e scarsamente illuminati. Spazi in cui la funzione tecnica e quella economica avevano avuto il predominio assoluto su qualsiasi idea di forma e di identità. L’esatto contrario di quanto avevano tentato di esprimere i progettisti brusa, cancellotti, montuori e scalpelli per il palazzo delle scienze dell'e42. L’idea si è allora immediatamente fatta strada: liberare e dilatare questo spazio fino a renderlo paesaggio, dialogare con le sue proporzioni monumentali favorendone una fruizione dinamica attraverso percorsi e modalità percettive diversificate. Per raggiungere questo scopo, è stato fondamentale un uso della tecnologia non come apparato lessicale in sé, ma come strumento di innumerevoli allusioni e contaminazioni tra natura ed artificio. A partire da un "cielo" cangiante, evocativo e poetico, al tempo stesso schermo acustico e sorgente luminosa con effetti di shifting cromatico sia nel tempo che nello spazio. Anche il disegno del pavimento in vetro si presta a una lettura metaforica: specchio d’acqua, onda, oasi. La trama di luce che lo compone ne fa però un elemento fortemente integrato nello spazio, in cui l’allusione all’elemento naturale rimane sempre distaccata e mai figurativa. Questo gioco continuo di rimandi al paesaggio naturale ha uno scopo ben preciso: interporre tra involucro architettonico e prodotto esibito un livello intermedio, aperto a nuove possibilità narrative e interpretative e, quindi, a nuove relazioni. La "povertà" del legno della pavimentazione, come anche le tonalità neutre delle pareti verticali sono dichiaratamente "sfondo". Le "figure" sono i prodotti e le opere esposte: fruibili, osservabili da ogni angolazione, realmente avvicinabili. Unica eccezione alla neutralità dei materiali è la superficie in vetro rosso della waiting area, frutto di una sottrazione di materia dai corpi che abbracciano lo spazio centrale e che vengono come "scavati", privati della loro pelle bianca. Ma lì, dove si viene accolti e invitati ad entrare, la potenza del colore può davvero farci sentire nell’occhio del ciclone: pronti a essere lanciati nell’orbita percettiva degli oggetti, che invadono lo spazio senza mai riempirlo.
 
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